Domenica 19 novembre, Giornata mondiale dei poveri: papa Francesco ha indetto questa giornata per porre attenzione al tema della povertà,e rimettere al centro i poveri nel mondo. Nel suo breve e inteso messaggio per la giornata, Bergoglio ha espresso alcune indicazioni che partono dalla parola (non amiamo a parole ma con i fatti…), che individuano nella comunità il luogo privilegiato per vivere in povertà e servire i poveri con lo stile delle prime comunità. Per aiutare la riflessione in questa giornata proponiamo alcune frasi tratte dal libro di Carlo Carretto Io Francesco.
«Il crocifisso di S. Damiano mi aveva rivelato una cosa molto importante che cercai di non dimenticare, anzi che fu la guida costante della mia vita.
La povertà non consisteva nell’aiutare i poveri, consisteva nell’essere povero. Aiutare i poveri era cosa fondamentale essendo parte ed espressione della carità, ma essere povero era un’altra cosa.
Gesù era stato povero. Io, Francesco, volevo essere povero.
Cosa significasse essere povero incominciavo a vederlo con chiarezza sia guardando i poveri sia guardando Gesù. Essere poveri significava non avere nulla o quasi nulla, significava non possedere ricchezze, non possedere cose, non possedere denaro, non possedere sicurezze, proprio come i poveri, proprio come Gesù. E questo non era ancora tutto: era solo il segno esterno, visibile della povertà.
La povertà vera andava al fondo delle cose e toccava lo spirito. Difatti Gesù aveva detto: “Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli”. Quanto mi interessavano queste parole! Quanto cercavo di capirne il significato! Beati i poveri in spirito! Voleva dire che i poveri non erano tutti uguali. Voleva dire che c’erano poveri in spirito e poveri… soltanto poveri.
Difatti pensando ai poveri incontrati nella mia vita, specie negli ultimi tempi, incominciai a vedere con evidenza che c’erano dei poveri soltanto poveri, molto tristi, sovente arrabbiati e certamente non beati.
E poi – me lo ricordavo benissimo – c’erano dei poveri beati. Poveri in cui la povertà era un vestito bello. Poveri che avevano la convinzione di essere guidati da Dio, sorretti dalla sua presenza.
Poveri capaci di amare nonostante le angherie subite, pazienti nelle prove, ricchi di speranza, forti nelle avversità. Poveri che erano beati perché ogni giorno potevano testimoniare che Dio era presente nella loro vita e che provvedeva a loro come agli uccelli del cielo che non posseggono granaio.
Questo sì che mi interessava a fondo.
Poter testimoniare a me stesso e agli uomini che Dio solo mi bastava e che non dovevo preoccuparmi di nulla, proprio di nulla, come “i gigli del campo che non filano e non tessono, ma nemmeno Salomone è vestito come loro” (Mt 6,25-34). Il pensiero di essere sfamato, vestito, guidato da Dio stesso mi esaltava e nessuna forza al mondo mi avrebbe convinto a cambiare idea. Mettere da parte anche pochi soldi, tenere una dispensa, comprare una casa sarebbe stato per me una mancanza di fiducia nel mio Signore.
Oh! Non è che io pretendessi questo modo di vivere da tutti gli uomini, da mio padre ad esempio. Era cosa impossibile e la città aveva altre leggi che la governavano, gli uomini vocazioni diverse.
Questo l’avrei preteso da me che volevo essere testimone dell’amore di Dio e l’avrei preteso da coloro che mi avrebbero seguito. Difatti da un po’ di tempo cominciavo a pensare e a desiderare di essere seguito in questo genere di vita e a sognare di avere dei compagni con cui condividere la fede e cantare le lodi dell’Altissimo mio Signore, veramente signore della nostra vita.
Così vedevo il religioso, il consacrato, colui che aveva tutto abbandonato proprio per seguire Gesù ed essere sulle strade del mondo testimone dell’invisibile Dio.
La scelta del povero non era quindi una scelta sociale, politica, ma una scelta mistica.
Ai miei tempi non mancavano le lotte sociali e i fremiti popolari contro le ingiustizie. I contadini erano in lotta continua contro i proprietari e i liberi comuni, come Assisi, in evidente tensione contro le ingerenze dei feudatari e lo strapotere dei grandi. Ciò era giusto farlo e si faceva.
È dai tempi di Adamo che l’uomo procede in questa lotta di liberazione, lotta mai finita che impegna tutto l’uomo creato proprio per la giustizie e la perfezione della verità e dell’amore.
Ma la beatitudine era un’altra cosa.
Io, Francesco, quando ho sentito l’appello del vangelo non l’ho fatto per organizzare in Assisi una forza politica.
L’ho fatto e lo ricordo bene, per amore, gratuitamente, per il vangelo, senza contrappormi al ricco, senza bisticciare con coloro che rimanevano ricchi, senza odio di classe, soprattutto.
Non ho detto ai poveri che venivano con me che bisognava battersi per delle rivendicazioni, lottare per aumentare il salario, ma solo che saremmo stati beati anche se pestati, perseguitati o uccisi. Il vangelo mi insegnava a porre l’accento sul mistero dell’uomo più che sull’impegno».