A tavola con Dio, in memoria di Pesakh

Cena ebraicadi Gianni Di SantoI candelabri dalle sette fiamme e gli altri lumi sono appena accesi. Per gli ebrei sono il segno del giorno di festa e insieme simbolo della luce che viene da Dio e che deve illuminare la loro vita. È la festa di Pasqua, Pesakh in ebraico, la memoria di quando il Signore Dio d’Israele liberò dalla schiavitù il suo popolo, aprendo per loro un passaggio attraverso le acque del mar Rosso.

I preparativi per la cena vanno avanti dal pomeriggio. Le donne sono tutte in cucina. Intingono, assaggiano, odorano, cucinano, e soprattutto parlottano come non mai. Gli uomini sistemano la sala per la cena, preparano il tavolo, apparecchiano, stappano bottiglie di buon vino rosso. Il musico accorda una inaccordabile chitarra “da battaglia” trovata lì, nella Casa San Girolamo a Spello, perché è proprio da qui che inizia il racconto del seder di Pesakh. La musica è sempre l’ultima ruota di scorta nelle nostre tavolate postconciliari, chissà perché. Non ha dignità di alto rango, specie negli strumenti musicali, spesso scordati, obsoleti, passati di mano in mano. Eppure la musica e il canto sono le vie più dirette per avvicinarsi al sacro.

L’agnello, simbolo sacrificale per eccellenza del rituale ebraico, sta cucinandosi. Il suo odore irrompe nella sala.

La cena pasquale, oggi, segue un suo antico rituale. La persona più importante presiede la celebrazione. Alla sua destra c’è il più giovane. Davanti a lui, una grande coppa di vino. Anche i commensali hanno la loro coppa di vino, più piccola, e un piatto. Sulla tavola delle piccole ciotole contenenti succo di limone, prezzemolo e sedano e una salsa detta kharoset, un impasto dolce e intenso fatto con fichi, datteri, mandorle, essenza di arancio e vino liquoroso, per ricordare il fango con cui gli ebrei erano costretti a impastare i mattoni durante la schiavitù.

Il pasto intanto ha inizio. Si sta bene, comodi, come in una cena tra amici: nessuno è schiavo questa sera.

Chissà che voce aveva, Gesù, mi racconta Moni Ovadia. «Era intonato o stonato come il patriarca Abramo? Faccio un ipotesi: Gesù forse non aveva una bella voce, ma di certo un’espressività perturbante e gioiosa come quella di Louis Armstrong. Nel momento in cui, con ogni probabilità, intonò Betzet Israel (all’uscita dall’Egitto), il salmo della melodia più intensa, gli apostoli forse ammutolirono e ascoltarono a bocca aperta».

A quel punto Gesù avrà compiuto la cerimonia del jahaz, preso dal piatto rituale tre azzime sovrapposte ed estratto l’azzima dal mezzo, poi l’avrà spezzata chiedendo che una delle due metà fosse nascosta. Fatto questo, avrà riempito il secondo bicchiere di vino e dato principio alla lettura della haggadah (il racconto della schiavitù d’Egitto) del Pesakh.

Si bene del buon vino, intanto, si mangiano le erbe amare. Questa sera hanno un sapore diverso. Perfino il prezzemolo con il limone dà sollievo al palato.

Poi, il più giovane dei commensali, chiede a Gesù: Maestro, perché la notte di Pasqua gli ebrei mangiano l’agnello? Perché questa notte mangeremo le erbe amare? Perché mangeremo il pane azzimo? Gesù, in questo caso il sacerdote che presiede la celebrazione, risponde a ogni domanda.

Finito il dialogo con il più giovane, ci si prepara alla cena vera e propria, degustando l’agnello e le altre vivande. I commensali ridono con gusto. Il vino scende a fiumi. L’agnello è strepitoso. E i racconti di vita di ciascuno dei commensali vengono accarezzati dal dono dell’ascolto.

L’artista Moni Ovadia, straordinario interprete della tradizione culturale ebraica (al quale, da cristiano, sono debitore per avermi fatto recuperare la memoria e il significato più intimo della cena ebraica pasquale, che fece Gesù in quanto ebreo), mi confidò: «Ciascun essere umano ebreo, cristiano, musulmano ma anche agnostico, ateo o diversamente credente, dovrebbe una volta nella vita partecipare a un seder di Pesakh, per riallacciarsi alle radici più profonde della liberazione da ogni forma di schiavitù. Ogni anno a casa mia lo prepariamo e lo celebriamo nella sua completezza con tanti amici, ebrei, cristiani, agnostici, atei. Invito sempre un vescovo cattolico. Leggiamo l’haggadah prima in ebraico e poi in italiano. Teniamo la porta d’ingresso socchiusa nel caso dovesse onorarci con una sua visita il profeta Elia oppure un viandante, che è sempre e comunque annuncio del profeta».

Già, Elia. Il profeta che attendono i nostri fratelli ebrei. Elia, che noi cristiani abbiamo imparato a conoscere con il nome di Gesù. E che oggi, per atto d’amore e misericordia, accogliamo a braccia aperte nel volto dell’Altro.

Una sedia vuota, e un posto a tavola apparecchiato per chiunque passasse di lì.

E che sia Pesakh.

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