Digiuno: libertà da… per una spiritualità da risorti

Il digiuno è diventato per i cristiani pratica desueta, rievocata certo all’inizio di ogni quaresima insieme all’appello alla conversione, ma poi spesso ridotto a un esercizio pio, perché se ne sono persi il senso e la profondità. Lo abbiamo ceduto alle diete, a chi protesta, agli ambientalisti, a chi segue percorsi Gesù 2vari di meditazione, ma la specificità e la bellezza del gesto cristiano in tutto questo non c’è.  A ciò si aggiunge anche il fatto che noi cattolici occidentali ci siamo giustamente liberati da una fede vissuta per precetti, ma abbiamo buttato a mare alcuni aspetti, alcune pratiche, riti, simboli che erano importanti ma di cui non comprendevamo più il senso.
Parlare di digiuno, pratica comune a tutte le tradizioni religiose, è difficile oggi anche perché implica fare obiezione di coscienza contro il nostro sistema economico e modello di sviluppo.


La conversione è dono. Forse oggi è tempo per i cristiani di leggere in modo nuovo il digiuno a partire dalla consapevolezza che la conversione non è il frutto di uno sforzo di volontà, non si può fondare sul senso di colpa, ma è un dono che chiede di essere ricevuto con fiducia e gratitudine. Così il digiuno diventa l’esercizio che l’essere umano nella sua completezza di mente, corpo, spirito, psiche, può compiere per allenare la sua vita a diventare spazio di accoglienza aperto per Dio per i fratelli. È una “pratica per regolare i sensi”, ha detto di recente papa Francesco, per porre un argine alla smodatezza, all’essere succubi dei propri sensi affinché non occupino tutto il nostro spazio interiore. È dire dei sì e dei no, non per autolesionismo o per contrarietà fine a se stessa, ma in funzione della verità di se stessi e della libertà di essere persona come Dio la pensa: libera davanti a Dio, libera davanti alle cose, davanti a me stesso, dai miei desideri e dalle mie passioni (cfr. Giovanni Moioli, Il peccatore perdonato).
La rinuncia non è una dieta… Il digiuno cristiano non è esercizio di autocontrollo, non è dieta, ma è lasciare spazio a qualcosa di più grande, sfuggire dal paradigma animale della mera soddisfazione, che spesso è illusione e, se assolutizzata, una perversione. È uno svuotarsi di noi stessi per lasciarsi riempire dagli altri, da Dio. Il digiuno ci rende capaci di compassione e di misericordia. Se il digiuno non mi porta infatti ad aprirmi a Dio e ai fratelli, ma è un esercizio auto-centrato, allora non funziona, non serve. Lo scriveva già il profeta Osea: “Misericordia, io voglio e non sacrificio”.
Da Mosè a Isaia. L’Antico Testamento ci racconta le tante circostanze in cui il popolo di Israele ha praticato il digiuno: Mosè prima di ricevere le tavole, o Elia prima di incontrare Dio sull’Oreb, la regina Ester per prepararsi a un compito difficile o Giosafat per chiedere protezione a Dio. Digiunano i niniviti per implorare il perdono e Davide nel suo grande dolore, per la morte dei figli nella guerra contro i Filistei. Ma già nell’Antico Testamento il digiuno è inseparabile dalla preghiera e dalla giustizia, come si legge in quel bellissimo passo di Isaia 58: “Il digiuno che io gradisco non è forse questo: che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi e che si spezzi ogni tipo di giogo?che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo…”.
Con Gesù lo sguardo sulla salvezza. Gesù, che è venuto non per abolire la legge, ma per inverarla, spiega (Mt 6) che nel rispettare la legge ebraica riguardo la preghiera, il digiuno, l’eleGesùmosina, lo sguardo non è più sul peccato, ma su una salvezza che già mi attende: fare l’elemosina, pregare, digiunare sono azioni del cuore che trasformano tutta la vita, creando lo spazio affinché la sovrabbondanza di Dio possa abitare in noi. San Paolo e la Chiesa delle origini riprendono la pratica del digiuno, e negli scritti dei primi secoli si trovano già definiti con precisione i giorni e le regole, che sono quelle che più integralmente la tradizione ortodossa ha mantenuto.
Atto religioso. Molto più recenti sono due testi ancora attuali. Il primo è la costituzione apostolica sulla penitenza “Paenitemini” di Paolo VI, scritta due mesi dopo la fine del Concilio Vaticano II. La penitenza è definita “atto religioso personale che ha come termine l’amore e l’abbandono nel Signore”. Se è utile il “volontario esercizio di azioni esteriori”, Paolo VI identifica il primo spazio di penitenza “nella fedeltà perseverante ai doveri del proprio stato, nell’accettazione delle difficoltà provenienti dal proprio lavoro e dalla convivenza umana, nella paziente sopportazione delle prove della vita terrena e della profonda insicurezza che la pervade” (56). Chi poi è malato, povero, in sventura, o perseguitato per amore della giustizia vive già così la sua penitenza.
L’originalità cristiana. Il secondo testo è “Il senso cristiano del digiuno e dell’astinenza” (1994), una bella nota pastorale dell’episcopato italiano. “L’originalità cristiana” di queste pratiche sta nel loro essere vissute “in comunione viva con Cristo, animate dalla preghiera e orientate alla crescita della libertà cristiana, mediante il dono di sé nell’esercizio concreto della carità fraterna”. I vescovi invitano poi a pensare modi nuovi di digiuno e astinenza, considerando che le trasformazioni sociali e culturali rendono anacronistiche certe pratiche come quella di sostituire il pesce alla carne in giorno di astinenza, con il criterio che siano scelte “improntate a una maggiore sobrietà e talvolta anche all’austerità”. Lo esige la dimensione spirituale di questa pratica, ma anche “il grido dei poveri, urlo disperato che reclama giustizia ed esige che i gesti religiosi del digiuno e dell’astinenza diventino il segno trasparente di un più ampio impegno di giustizia e di solidarietà”.
Qual è la nostra fame? Ammonisce però Enzo Bianchi: “Sarebbe profondamente ingannevole pensare che il digiuno  alimentare sia sostituibile con qualsiasi altra mortificazione o privazione”, perché  esso svolgela fondamentale funzione di farci discernere qual è la nostra fame, di che cosa viviamo, di che cosa ci nutriamo e di ordinare i nostri appetiti intorno a ciò che è veramente l’unico necessario”. O ancora, scrive il monaco cistercense spagnolo Carlos M. Antunes: “Il digiuno aiuta a creare uno spazio fertile per il silenzio, un’oasi in grado di interrompere la voracità monotona che spesso caratterizza il nostro rapporto con il cibo e con la realtà che ci circonda”. Inoltre: “Il digiuno ci insegna a mangiare: crea uno spazio adeguato per accogliere il dono, liberandoci dalla voracità; non si oppone all’allegria della festa, ma ne restituisce il pieno senso”.
Certo oggi viviamo mille forme diverse di voracità: dall’iper-attivismo lavorativo, a quello sportivo, a quello comunicativo e forse anche relazionale. Quindi digiunare può veramente significare la rinuncia a qualcosa che ci rende schiavi, che occupa tutto lo spazio della nostra mente, del nostro cuore, del nostro tempo per poter tornare a essere liberi nel cuore, nella mente e nel tempo di amare Dio e i fratelli.

Sarah Numico

Share Button